Chi ci guadagna e chi ci perde quando i prezzi crescono? Sicuramente a rimetterci di più sono i consumatori, come abbiamo spesso dimostrato. Ma l’inflazione non ha conseguenze solo sulle famiglie, colpite dall’aumento del costo della vita. Cambia qualcosa per i risparmiatori? E per chi ha sottoscritto un mutuo? Quali sono gli effetti dell’inflazione sul sistema economico e sugli altri attori in campo?
Lo Stato. Tra chi ci guadagna c’è sicuramente lo Stato che, tramite l’Iva, l’imposta sul valore aggiunto, si avvantaggia del rincaro, incassando più soldi. Se un bene costa, senza Iva, 100 euro, lo Stato ne prende 22 grazie all’aliquota ordinaria. Se il prezzo arriva a 110 euro, ne riscuote 24,2 euro.
I debitori ci guadagnano. Se la funzione principale della moneta è quella di essere un mezzo di scambio, la moneta ha anche altre 3 funzioni: unità di conto, misura per i pagamenti differiti e riserva di valore. Una riserva di valore è un’attività finanziaria che mantiene il suo valore nel tempo. Se la moneta non fosse una riserva di valore non potrebbe essere nemmeno usata come mezzo di scambio, perché nessuno la vorrebbe più in cambio di un bene. Se viene accettata come mezzo di pagamento è perché chi la riceve crede che possa essere usata anche in un secondo momento e che nel frattempo non svanisca. Ebbene, con l’inflazione la moneta perde parte del suo valore. La conseguenza è che chi ha un debito a tasso fisso beneficia dell’inflazione perché ripaga il suo debito con denaro svalutato, con un valore reale minore. I creditori sono invece le vittime, perché diminuisce il valore del loro credito. Tra i debitori c’è in primo luogo lo Stato che usufruisce dell’erosione del valore reale dei titoli di Stato non indicizzati, quindi del peso del debito pubblico. Migliora anche il rapporto tra debito e Pil, dato che aumenta il Pil nominale.
Tuttavia, se l’inflazione resta elevata a lungo, prima o poi i rendimenti nominali dei titoli di Stato devono salire per riflettere l’inflazione maggiore e restare appetibili e la spesa per interessi finisce comunque per lievitare. E’ quello che sta accadendo ora. Un buon consiglio per i risparmiatori, oltre a diversificare il portafoglio, ossia non investire tutto in un solo prodotto finanziario (per evitare di perdere tutto se poi le cose vanno male, come successo nei vari crac, dalla Parmalat alla Cirio), è quello di guardare sempre al tasso di interesse reale: tasso nominale – tasso d’inflazione.
Non è un caso che anche lo Stato emette titoli che proteggono i risparmiatori dall’innalzamento dei prezzi, che hanno rendimenti crescenti al crescere dell’inflazione. In questo modo si difende e si custodisce il valore reale dell’investimento e, in ultima analisi, il potere di acquisto delle famiglie.
La politica monetaria della Bce e gli effetti sui mutui. La Bce, poi, per frenare l’aumento dei prezzi, può decidere, come sta facendo da alcuni mesi, di alzare i tassi di interesse di riferimento, ossia i tassi del sistema interbancario, con effetti indiretti su tutti i tassi esistenti, anche quelli dei titoli di Stato, facendo salire l’onere del debito pubblico, ossia gli interessi sul debito che lo Stato paga con i soldi che gli italiani versano con le tasse. Secondo le stime dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb), cioè dell’authority italiana dei conti pubblici, un rialzo stabile dei tassi di interesse di 100 punti base, ossia di un +1%, fa crescere la spesa pubblica di 19 miliardi in tre anni: 2,5 miliardi nel 2023, 6,7 miliardi nel 2024, 10,1 miliardi nel 2025.
Salgono anche i costi dei prestiti e dei mutui (per quelli in essere se sono a tasso variabile). Il 2 febbraio, ad esempio, la Bce ha alzato i tassi di 50 punti base. Considerando l’importo e la durata media di un mutuo (23,9 anni), questo incremento corrisponde, nel caso di un pieno trasferimento sull’Euribor (il tasso di riferimento dei mutui a tasso variabile), ad un aumento della rata pari a 36 euro al mese per chi ha sottoscritto ora un mutuo a tasso variabile. Una stangata annua pari a 432 euro. Un rincaro che, nel caso di piano di ammortamento alla francese, vale per chi ha sottoscritto da poco il contratto e ha ancora una quota di interessi molto alta, ma che ovviamente cala man mano che il mutuo si avvicina alla sua scadenza e si paga quasi soltanto la quota capitale.
La Bce non può non intervenire sui tassi quando l’inflazione è al galoppo. E’ uno dei suoi compiti principali contenerla. Alzando i tassi fa diminuire, dato che diventano più costosi, gli investimenti (con tassi maggiori ci saranno meno mutui e meno acquisti di case) che, insieme a consumi, spesa pubblica e esportazioni nette (esportazioni – importazioni) compongono il Pil. Tassi più alti equivalgono, quindi, a meno Pil e, per questa via, a minore inflazione.
Lo scotto di una crescita più bassa sarebbe anche un bene pagarlo se questo servisse a raffreddare subito i prezzi. Va considerato, infatti, che anche l’inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie, ha effetti negativi sulla crescita: diminuiscono i consumi degli italiani che costituiscono il 60% del Pil.
Il punto è che la Bce interviene dal lato della domanda e della politica monetaria, quando stavolta il problema è dal lato dell’offerta e della politica fiscale, con il rischio che il suo intervento produca effetti limitati sui prezzi e assai più elevati sul Pil. La Bce, infatti, nella congiuntura attuale, non può rimuovere le cause dell’inflazione, che dipendono dai rincari dei beni energetici e non dalla moneta in circolazione. E’ un’inflazione importata che dipende dal prezzo del gas nei mercati internazionali. Sarebbe stato molto più utile se, oltre al tetto del prezzo del gas, tetto finalmente entrato in vigore anche se ancora troppo alto, si fosse subito creata un’alternativa al famoso Ttf, un diverso mercato di riferimento europeo per il prezzo del gas, se si fosse disaccoppiato il prezzo dell’elettricità da quello del gas, se si fosse ripensato il meccanismo delle aste Ets, cioè del sistema europeo di acquisto dei permessi per emettere CO2, che consente speculazioni sui crediti di CO2. Tutte cose che avrebbe dovuto fare l’Ue e invece non ha fatto.
Per tutte queste ragioni è bene che la Bce proceda con più cautela nei rialzi dei tassi, per evitare di avvicinare lo spettro della recessione, ossia di una diminuzione del Pil nel 2023 rispetto al 2022, facendo da sprono ai Paesi Ue perché nel frattempo intervengano più efficacemente sul piano fiscale, sul prezzo dei beni energetici, ossia luce, gas e carburanti. Altrimenti, se non si spegne l’origine del fuoco che incendia i prezzi, a poco serve tutto il resto. A salvarci da ulteriori rincari del gas, ad abbassare le fiamme, finora è solo stato soprattutto un evento fortuito: l’inverno più caldo di sempre in molto Paese europei che, riducendo la domanda di gas, ha calmierato i prezzi.
Le imprese e i commercianti ci rimettono? Anche le industrie e i negozianti sono colpiti dai rialzi del costo delle materie prime e dei beni energetici, che sono costi di produzione (luce e gas) e di distribuzione (carburanti) di tutte le imprese e gli esercizi commerciali. Certo ci sono venditori di luce e gas che stanno facendo extraprofitti milionari, mentre altre aziende sono in difficoltà a pagare le bollette, specie quelle energivore.
Ma a differenza delle famiglie, loro hanno una scappatoia: i maggiori costi possono essere traslati sui consumatori e sui prezzi finali dei beni e dei servizi, anche se magari non subito se hanno contratti di fornitura con prezzi bloccati per un certo tempo.
E’ quello che è accaduto e sta accadendo ancora ed è il motivo per cui i prezzi sono diventati stellari. Insomma, a pagare, alla fine, è sempre la casalinga di Voghera.
Articolo realizzato nell’ambito del Programma generale di intervento della Regione Lombardia con l’utilizzo dei fondi del Ministero dello sviluppo economico D.M. 10.08.2020